Le Sezioni Unite hanno affermato che non sussiste l’interesse per la parte civile ad impugnare, anche ai soli effetti civili, la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per condotte riparatorie emessa ai sensi dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, in quanto tale pronuncia non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile medesima. 


 RITENUTO IN FATTO
1. A seguito di querela sporta da **** **** in data 31 agosto 2009, **** ****veniva citato in giudizio dinanzi al Giudice di pace di Udine per i reati di cui agli artt. 81, 581 e 612 cod.pen.
Con sentenza pronunciata all'udienza del 28 febbraio 2011, il Giudice di pace, preso atto che in data 25 febbraio 2011 l'imputato **** ****aveva depositato un assegno circolare di euro 1000 intestato alla persona offesa **** ****, accoglieva l'istanza dell'imputato di applicazione dell'art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, pronunciando declaratoria di non doversi procedere per estinzione dei reati in considerazione delle intervenute attività risarcitorie e riparatone.
Avverso tale sentenza la parte civile proponeva ricorso per cassazione agli effetti penali e civili, lamentando la inosservanza ed erronea applicazione dell'articolo 35 d.lgs n. 274 del 2000, in relazione al reato di cui all'articolo 612 cod. pen., giacché fattispecie di mero pericolo, ed eccependo, altresì, il difetto di motivazione specifica in ordine alla sussistenza della condotta riparatoria.
La Quinta Sezione penale, con sentenza del 3 aprile 2012, qualificava il ricorso come appello e disponeva trasmettersi gli atti al Tribunale di Udine.
All'esito del giudizio, il Tribunale di Udine, con sentenza del 29 marzo 2013, rigettava l'appello e confermava la sentenza del Giudice di pace. In proposito osservava che, in relazione agli episodi contestati, la somma offerta dall'imputato appariva addirittura eccedente il danno effettivamente subito da **** ****, atteso che dall'istruttoria svolta era emerso che le gravi sofferenze lamentate dalla querelante erano in realtà riconducibili, più che alle violenze subite, alla crisi del rapporto coniugale, ossia ad una situazione non addebitabile unilateralmente all'imputato e, in ogni caso, estranea all'oggetto del risarcimento. Si sarebbe trattato, dunque, di fatti episodici tra loro slegati ed improduttivi di lesioni fisiche ma che si erano risolti in minacce di morte qualificate da una limitata capacità d'intimidazione. La somma versata veniva pertanto ritenuta pienamente idonea a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e di prevenzione essendo altresì l'imputato soggetto incensurato e che non risultava aver reiterato simili condotte.
A tale conclusione il Tribunale giungeva anche in considerazione del fatto che gli unici episodi delittuosi ritenuti in concreto perseguibili nel caso di specie erano quelli commessi in data 20 giugno 2009 e 28 luglio 2009, posto che la querela presentata in data 31 agosto 2009 doveva ritenersi tardiva rispetto alle percosse del 28 marzo 2009 e alle minacce del 3 maggio 2009.
2. Con atto in data 5 agosto 2013, la costituita parte civile **** ****, ha proposto ricorso per cassazione agli effetti civili avverso la predetta sentenza del Tribunale di Udine.
Si denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell' art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, anche in relazione al difetto di motivazione in ordine alla sussistenza della condotta riparatoria.
Ad avviso della ricorrente, il Tribunale avrebbe, in primo luogo, omesso di pronunciarsi in merito alla dedotta irritualità dell'offerta risarcitoria effettuata dallo ****, in assenza di qualsiasi trattativa per la quantificazione del risarcimento e di qualsivoglia altro comportamento adeguato proveniente dall'imputato prima dell'udienza, non essendo, comunque, l'offerta il frutto di una spontanea attività riparatoria dell'imputato diretta in concreto a soddisfare le esigenze di riprovazione e prevenzione in modo tale da ristabilire l'integrità dei valori violati. A tal fine la ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo la quale «in tema di procedimento davanti al giudice di pace, il potere del giudice nel riconoscere l'idoneità della riparazione, quale causa d'estinzione del reato, non può spiegarsi oltre i requisiti oggettivi previsti dall'art. 35, d.lgs. n. 274 del 2000, tra i quali vi è quello dell'anteriorità della riparazione rispetto all'udienza di comparizione, limite che costituisce uno sbarramento superabile solo dal provvedimento con cui il giudice dispone la sospensione del processo per consentire all'imputato, che ne abbia fatto richiesta, di porre in essere le condotte riparatorie» (Sez. 4, n. 12856 del 19/03/2010, Mizigoi, Rv. 247032).
Inoltre, secondo la ricorrente, l'offerta non sarebbe stata idonea, in concreto, a soddisfare le esigenze di riprovazione e prevenzione del reato ma sarebbe stata frutto di un'attività «strategico-difensiva effettuata a sorpresa al solo scopo di ottenere un'impunità per di più a basso costo»; in ogni caso la sentenza impugnata risulterebbe priva di adeguata motivazione sul punto.
In particolare il difetto di motivazione avrebbe riguardato:
- l'idoneità delle condotte riparatorie poste in essere dall'imputato a soddisfare la richiesta di punizione della condotta criminosa effettivamente posta in essere;
- l'omessa valutazione di tali condotte quali espressione della volontà da parte dell'imputato di riaffermare i valori lesi dal reato;
- l'omessa motivazione in ordine alla possibilità di dedurre dalle condotte riparatorie il ravvedimento del reo e la conclusione di un percorso rieducativo;
- l'omessa motivazione in ordine alla formulazione di un giudizio prognostico positivo in ordine al futuro comportamento dell'imputato.
3. La Quinta Sezione penale, cui il ricorso è stato tabellarmente assegnato, con ordinanza del 18 novembre 2014, dep. il 16 gennaio 2015, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione preliminare inerente la sussistenza o meno dell'interesse per la parte civile a proporre impugnazione, anche ai soli effetti civili, avverso la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie prevista dall'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000.
L'ordinanza richiama innanzitutto la pronuncia delle Sez. U, n. 35599 del 21/06/2012, Di Marco, Rv. 253242, che, affrontando il tema generale della rilevanza delle decisioni di natura processuale, ha affermato che la parte civile è priva di interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato per improcedibilità dell'azione penale dovuta a difetto di querela, trattandosi di pronuncia meramente processuale priva di idoneità ad arrecare vantaggio al proponente ai fini dell'esercizio dell'azione civile. Viene evidenziato, tuttavia, che, con riferimento alla particolare ipotesi di sentenza dì non luogo a procedere per difetto di querela, emessa all'esito dell'udienza preliminare, è stata riconosciuta la sussistenza dell'interesse ad impugnare della persona offesa, costituita parte civile, trattandosi di impugnazione riguardante gli effetti penali (Sez. 5, n. 41350 del 10/07/2013, Cappellaio, Rv. 257934). Ad avviso del collegio rimettente tale pronuncia solo in apparenza appare difforme dalla decisione delle Sez. U, Di Marco, posto che, come precisato nella sentenza Cappellaio, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite muove dalla premessa secondo la quale la presenza della parte civile ha, in generale, la finalità esclusiva di perseguire la responsabilità civile dell'imputato; per questo motivo l'interesse ad impugnare della parte civile va valutato e configurato in relazione alle peculiarità proprie dell'azione civile esercitata all'interno del processo penale. Nel caso in cui, eccezionalmente, come nel caso previsto dall'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., l'impugnazione della parte civile riguardi anche gli effetti penali deve ritenersi sussistente l'interesse alla proposizione del ricorso per cassazione (si citano Sez. 5, n. 12902 del 22/02/2008, De Simone, Rv. 239386 e nello stesso senso Sez. U, n. 25695 del 29/05/2008, D'Eramo, Rv. 239701).
La Sezione rimettente evidenzia la peculiarità della fattispecie in esame, sottolineando come la pronuncia ex art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, pur avendo natura meramente processuale, coinvolga necessariamente la valutazione degli effetti civili e di quelli penali.
Sul punto l'ordinanza richiama, adesivamente, un orientamento giurisprudenziale, secondo il quale nel procedimento penale davanti al giudice di pace, avverso le sentenze di proscioglimento la parte civile può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, a norma dell'art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000, limitatamente all'ipotesi in cui la citazione a giudizio dell'imputato sia stata chiesta dalla persona offesa con ricorso immediato ai sensi dell'art. 21 del citato decreto (Sez. 5, n. 50578 del 07/11/2013, Bucci, Rv. 257841). Ne consegue che la persona offesa costituita parte civile, non ricorrente immediata ai sensi dell'art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000, non sarebbe in genere legittimata all'impugnazione agli effetti penali. Ma secondo la Quinta Sezione tale ricorso, nel caso di impugnazione della sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, coinvolge necessariamente gli effetti civili e quelli penali, in base alla espressa previsione legislativa che non consentirebbe di operare tale separazione. Detta sentenza è infatti prevista per il caso in cui l'imputato abbia fatto venir meno l'esigenza del processo a seguito delle attività di riparazione o risarcimento del danno, poste in essere prima del giudizio, e che poi siano state ritenute idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.
L'ordinanza segnala poi un recente orientamento giurisprudenziale che esclude la sussistenza per la parte civile dell'interesse ad impugnare, anche ai soli fini civili, la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per intervenuto risarcimento del danno, in quanto la pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, e non contenendo alcun capo concernente gli interessi civili sull'esistenza dello stesso danno e sulla sua entità, non può essere in grado di produrre alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (Sez. 5, n. 30535 del 26/06/2014, Uggini, Rv. 260037). Tale linea interpretativa fa riferimento al principio generale per il quale la parte civile può, di norma, impugnare solo agli effetti della responsabilità civile (art. 576 cod. proc. pen.), nonché al dato normativo contenuto nell'art 38 d.lgs. n. 274 del 2000, che, a contrario, limita l’impugnazione della parte civile, anche agli effetti penali, con riferimento alla sola ipotesi in cui la citazione a giudizio dell’imputato sia stata chiesta dalla persona offesa con ricorso immediato ai sensi dell'art. 21 del citato decreto. Da ciò, deriverebbe che, nel caso di imputazione formulata dal pubblico ministero, ai sensi degli artt. 15 e 20 d.lgs. n. 274 del 2000, la parte civile non è legittimata ad impugnare la sentenza agli effetti penali. Questo ultimo orientamento si porrebbe in consapevole contrasto con un altro filone giurisprudenziale, che invece ritiene sussistente l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza, quanto meno agli effetti civili, trattandosi di pronuncia che contiene comunque valutazioni idonee ad incidere sul merito della pretesa civilistica (Sez. 5, n. 40876 del 23/09/2010, Pezzano, Rv. 248657 e Sez. 4, n. 23527 del 14/05/2008, Di Martino, Rv. 240939).
Il rilevato conflitto interpretativo, ad avviso della Quinta Sezione, rende necessario rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 21 gennaio 2015, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite può essere così enunciata: "Se in tema di reati di competenza del giudice di pace sussista l'interesse per la parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000".
2. Sulla questione si registra un contrasto interpretativo che coinvolge un duplice profilo: quello relativo alla possibilità o meno per la parte civile che non abbia proposto ricorso immediato ai sensi dell'art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000 di proporre impugnazione non solo agli effetti civili ma anche agli effetti penali e, qualora si escluda tale ultima opzione, quello relativo alla sussistenza o meno in capo alla parte civile dell'interesse a proporre impugnazione anche ai soli effetti civili.
Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione il contrasto può essere ricostruito sostanzialmente attraverso l'analisi di due orientamenti della Corte di cassazione, ciascuno dei quali appare articolato sulla base di una diversa considerazione della natura e degli effetti che la particolare tipologia della sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 può produrre nei confronti della parte civile.
2.1. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, in tema di reati di competenza del giudice di pace deve ritenersi sussistente l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per intervenuto risarcimento dei danni, atteso che detta pronuncia contiene valutazioni incidenti nel merito della pretesa civilistica e potenzialmente pregiudizievoli per gli interessi della parte privata (Sez. 4, n. 23527 del 14/05/2008,Di Martino, Rv. 240939). In questo caso la facoltà di impugnare, ai soli effetti della responsabilità civile, le sentenze di proscioglimento (al cui genere si ritiene riconducibile la particolare sentenza in esame) pronunciate nel giudizio di primo grado, è stato riconosciuto alla parte civile che non sia ricorrente ex art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000, ai sensi dell'articolo 576 cod. proc. pen.; tale disposizione trova applicazione anche in caso di sentenza pronunciata dal giudice di pace, in base al richiamo contenuto nell'art. 2 del citato decreto. Si ritiene dunque ammissibile l'impugnazione ai soli effetti civili della sentenza in esame, perché ritenuta potenzialmente pregiudizievole degli interessi della parte civile (in senso conforme Sez. 5, n. 50578 del 07/11/2013, Bucci, Rv. 257841; Sez. 5, n. 20070 del 18/04/2013, Ruggeri, n.m., e Sez. 4, n. 40873 del 06/10/2009, Simonaggio, n.m.). Tale orientamento è stato perfezionato da quella giurisprudenza che ha ritenuto l'ammissibilità del ricorso non solo agli effetti civili ma anche agli effetti penali (Sez. 5, n. 40876 dei 23/09/2010, Pezzano, Rv. 248657). Secondo tale filone giurisprudenziale, infatti, sebbene la persona offesa costituita parte civile, che non sia anche ricorrente immediata ai sensi dell'art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000, non è in genere legittimata all’impugnazione agli effetti penali, il suo ricorso, nel caso di impugnazione della sentenza che ha applicato la causa estintiva di cui al citato articolo 35, in realtà coinvolge per definizione contemporaneamente questi ultimi e gli effetti civili.
Tali conclusioni troverebbero la loro base normativa nella specifica disciplina dettata dall'art. 35 d.lgs. citato che prevede questo tipo di sentenza per il particolare caso in cui l’imputato abbia fatto venir meno la necessità della celebrazione del processo in ragione delle sue attività di riparazione o risarcimento del danno intervenute prima del giudizio, sempre che tali attività siano state ritenute idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.
La valutazione a tal fine richiede che siano sentite le parti e l’eventuale persona offesa e che l’attività risarcitoria o riparatoria dell’imputato sia stata compiuta prima dell’udienza di comparizione. Solo in via sussidiaria, se l’imputato comparso dimostri di non aver potuto svolgere l’attività riparatoria o risarcitoria prima dell'udienza e richieda di farlo, l'art. 35, comma 3, d.lgs. citato autorizza il giudice di pace a sospendere l’udienza, ponendo specifiche prescrizioni e termini per l'esecuzione delle stesse. Se l’imputato adempie positivamente a quanto prescritto, viene pronunciata la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000. Se l'imputato non viene autorizzato o se emerge che le prescrizioni a lui imposte non sono state correttamente adempiute, il processo riprende il suo corso. Una disciplina così configurata non consentirebbe dunque al giudice di scindere la valutazione degli effetti civili da quelli penali, né di procedere all’audizione preventiva della stessa persona offesa sia o meno costituita parte civile, e nemmeno di dar conto della rilevanza delle obiezioni eventualmente avanzate dalla stessa. Da ciò deriverebbe l'ammissibilità del ricorso.
In termini del tutto adesivi all'indirizzo delineato, seppure senza motivare specificamente sul punto, si sono espresse anche, da ultimo, Sez. 4, n. 16261 del 20/03/2013, Mollo, n.m.; Sez. 5, n. 51390 del 30/09/2013, Cannariato, n.m.; Sez. 4, n. 32131 del 26/06/2014, Gorini, n.m.; Sez. 4, n. 22290 del 15/05/2014, Rubattu, n.m.; Sez. 4, n. 27593 del 13/03/2014, Franchi, n.m., che hanno ammesso la sussistenza dell'interesse a ricorrere della parte civile avverso la sentenza ex art. 35 d.lgs. 274 del 2000 anche agli effetti penali.
2.2. Secondo un diverso orientamento è stato invece affermato che non sussiste alcun interesse per la parte civile ad impugnare, anche ai soli fini civili, la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per intervenuta condotta riparatoria, in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (così Sez. 5, n. 27392 del 06/06/2008, Di Rienzo, Rv. 241173).
Secondo tale filone giurisprudenziale l’interesse alla proposizione dell'impugnazione non è costituito solo dall'eliminazione del contrasto tra il contenuto della decisione impugnata e la pronuncia cui invece si aspira mediante il gravame; all'eliminazione del provvedimento ritenuto pregiudizievole deve anche conseguire una situazione concreta più vantaggiosa rispetto a quella esistente. Al contrario, la sentenza del giudice di pace, quando accerta la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 d.lgs. citato, con una valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con una sentenza predibattimentale, non è in grado di produrre alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile ricorrente. Invero, l'art. 652 cod. proc. pen. prevede che solo la sentenza di assoluzione pronunciata in giudizio, in seguito a dibattimento, per insussistenza del fatto, mancata commissione dello stesso da parte dell'imputato o ricorrenza di un'esimente, abbia efficacia di giudicato nell'eventuale giudizio civile di responsabilità che la parte civile può instaurare nei confronti dell'imputato (sul punto Sez. 5, n. 4405 del 04/03/1999, Rossini, Rv. 213110). Dunque, poiché nell'eventuale giudizio civile di danno la parte civile non può risentire alcun pregiudizio dalla sentenza di proscioglimento intervenuta, alla stessa non può essere riconosciuto alcun interesse a formulare censure riguardo alla dichiarazione di estinzione del reato (in senso conforme Sez. 4, n. 15619 del 26/01/2011, D'Angelo, n.m.; Sez. 4, n. 46368 del 18/02/2014, Imbrocè, Rv. 260946 e Sez. 5, n. 30535 del 26/06/2014, Uggini, Rv. 260037).
L'esclusione per la parte civile che non abbia chiesto la citazione a giudizio dell'imputato mediante ricorso immediato ai sensi dell'art. 21 d.lgs. 274 del 2000, di proporre ricorso ai fini penali è stato affermato chiaramente in base al principio generale contenuto nell'art. 576 cod. proc. pen., secondo il quale la parte civile può, di norma, proporre impugnazione solo agli effetti della responsabilità civile e facendo leva altresì su una interpretazione a contrario dell'art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000; tale ultima norma limita infatti l’impugnazione della parte civile, anche agli effetti penali, all'ipotesi in cui la citazione a giudizio dell'imputato sia stata chiesta dalla persona offesa con ricorso immediato. Questo filone giurisprudenziale ha dunque evidenziato che per quanto attiene gli interessi civili, le sentenze di proscioglimento di natura processuale per estinzione del reato (mancanza di querela, prescrizione, estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 d.lgs. 274 del 2000), ove non contengano alcun capo relativo all'accertamento ed alla quantificazione del danno, non statuiscono sulla responsabilità dell'imputato e alla stesse pertanto non può essere riconosciuta alcuna efficacia preclusiva in sede civile in ordine al risarcimento eventualmente richiesto, con assenze di ricadute negative nei confronti della parte interessata. La facoltà per la parte civile di impugnare le sentenze di assoluzione, invece, risiede nel fatto che esse, giudicando sulla responsabilità penale, contengono normalmente un espresso rigetto della domanda civile e compiono, comunque, una valutazione in fatto che ha effetti pregiudizievoli sulla richiesta di risarcimento. Correttamente dunque la facoltà d'impugnazione è stata eccezionalmente riconosciuta dalla legge alla parte civile nell'ipotesi di cui all'art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000 o dell'art. 428 cod. proc. pen. in sede di udienza preliminare, dove il legislatore ha voluto apprestare uno strumento di tutela al titolare dell’interesse protetto dal precetto penale, cioè della vittima del reato che patisce il "danno criminale" (v. Sez. 6, n. 22019, del 22/11/2011, dep. 2012, Rv. 252774, Liotta; Sez. 5, n. 37114 del 16/04/2009, De Rosa, Rv. 244601 e Sez. 6, n. 16528, 21/01/2010, Mazza, Rv. 246997).
L'attuale disciplina dell'impugnazione di cui all'art. 428 cod. proc. pen. non prevede in favore della parte civile ricorrente uno strumento di tutela dei suoi interessi civilistici, dal momento che la sentenza ex art. 425 cod. proc. pen. non pregiudica in alcun modo le istanze risarcitorie della stessa parte civile, in base a quanto è previsto dall'art. 652, comma 1, cod. proc. pen. in tema di efficacia non preclusiva (giudicato) della sentenza penale di assoluzione dell'imputato non pronunciata all'esito di giudizio dibattimentale, quale appunto è la sentenza di cui all'art. 425 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 25695 del29/05/2008, D'Eramo, Rv. 239701; in senso conforme Sez. 5, n. 48706 del 25/09/2014, Bersani, Rv. 261226; Sez. 4, n. 4610 del 15/01/2015, Orazi, Rv. 261875; Sez. 5, n. 52083 del 10/11/2014, Giustetto, n.m.). La previsione per cui lo stesso art. 428, comma 2. cod. proc. pen. legittima al ricorso, per i motivi previsti dall'art. 606 cod. proc. pen. (e non più per i soli motivi attinenti all'instaurarsi del contraddittorio nell'udienza preliminare) la sola parte civile che riveste anche qualità di persona offesa dal reato rafforza, del resto, la conclusione secondo la quale il legislatore, in questo caso, ha voluto accordare tutela alle ragioni di segno penale del titolare dell'interesse protetto dal precetto penale, cioè della vittima del reato che patisce il "danno criminale".
3. Ciò premesso, osserva il Collegio che l'istituto dell'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie disciplinato dall'art. 35, comma 1, d.lgs. 274 del 2000 rappresenta una peculiare forma di definizione alternativa del procedimento che, unitamente a quella di improcedibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 34 d.lgs. citato, costituisce una delle principali innovazioni introdotte dalla normativa istitutiva della figura del giudice di pace. L'istituto, unitamente a quelli deflativi e conciliativi delineati nel provvedimento legislativo, trova la sua ratio nell'esigenza di «configurare un sistema che vuole porsi come mezzo di tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo conseguente alla commissione del reato» (Relazione al d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante "Disposizioni in materia di competenza penale del giudice di pace"). Ciò al fine di esaltare la funzione conciliatrice del giudice di pace e il suo ruolo di mediatore, attraverso gli strumenti normativi predisposti dal legislatore per la composizione dei conflitti tra le parti. Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalenti sono sostanzialmente concordi nel qualificare questo istituto come causa di estinzione del reato, che, come tale, soggiace alle disposizioni comuni dettate per tutte le cause estintive; conseguentemente, dal punto di vista processuale, la causa estintiva può essere dichiarata immediatamente sia prima sia dopo l'esercizio dell'azione penale, in qualsiasi stato e grado del procedimento ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.
La norma prevede dunque come presupposto dell'estinzione del reato, «la riparazione del danno cagionato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato». Tra le due condotte previste nel testo della disposizione non vi è alternatività, come dimostrato dalla presenza della congiunzione "e", dovendo tali esigenze essere entrambe soddisfatte ai fini dell'operatività del meccanismo estintivo, ovviamente sempre che si siano verificate concrete conseguenze dannose o pericolose da eliminare ed essendovi danni da risarcire, dovendosi ammettere la sufficienza di una sola delle due nell'ipotesi in cui l'altra sia concretamente ed oggettivamente insussistente. Il legislatore ha escluso qualsiasi automatismo per l'esplicazione degli effetti estintivi, subordinando la pronuncia ad una valutazione di idoneità della condotta risarcitoria e riparatoria posta in essere dall'imputato, da parte del giudice di pace, tale da soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. A tal fine, nel correlare l'estinzione del reato alla valutazione di congruità del giudice di pace, la norma prevede che siano state sentite le parti, ma non che sia stato acquisito il consenso della persona offesa, la cui eventuale mancanza non si pone, pertanto, quale condizione ostativa all'operatività del meccanismo estintivo (Sez. 4, n. 10673 del 26/10/2010, Ciannamea, Rv. 246393). E' stata dunque ritenuta in giurisprudenza la legittimità della declaratoria di estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno qualora, pur nel dichiarato dissenso della persona offesa per l'inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall'imputato, il giudice abbia espresso una motivata valutazione di congruità della medesima somma (Sez. 5, n. 31070 del 10/04/2008, Gatto, Rv. 241166; Sez. 5, n. 22323, 21/04/2006, Gavioli, Rv. 234555), con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze strettamente compensative, in ordine al risarcimento dei danni civili cagionati dal reato, quanto di quelle retributive e preventive di natura strettamente penalistica. L'operazione valutativa compiuta dal giudice consiste dunque nel mettere in relazione le attività poste in essere dall'imputato con la gravità del fatto, per evitare che la mancata applicazione della pena abbia ripercussioni negative sulla tenuta general-preventiva del sistema, e cercando contemporaneamente dì ricomporre il conflitto attraverso la compensazione dell'offesa, in modo coerente con gli obiettivi di prevenzione generale e speciale che caratterizzano l'ordinamento penale.
Il giudice di pace può ritenere, peraltro, anche implicitamente, che l'offerta riparatoria, ex art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, sia di per sé idonea anche a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione quando la natura del reato non richieda ulteriori apprezzamenti (ex multis Sez. 4, n. 1831 del 16/12/2009, Mascheretti, Rv. 245998; Sez. 5, n. 45355 del 06/11/2008, Manieri, Rv. 242607; Sez. 5, n. 5581 del 18/01/2007, Napoli, Rv. 236519; Sez. 5, n. 14070 del 24/03/2005, Del Testa, Rv. 231777), proprio perché la necessità di una espressa valutazione del giudice di merito va rapportata alle caratteristiche del caso concreto; ovvero potrebbe ritenere che, in considerazione della particolare natura del reato commesso, per soddisfare le suddette esigenze si rendano necessarie ulteriori attività (per es. forme di pubblicità).
La correttezza della decisione è quindi condizionata dalla prova concreta della ricerca del risultato riparatorio, in mancanza della quale la decisione assunta sarebbe erronea, in relazione ai parametri del concreto ravvedimento ricavabile dall’offerta e, soprattutto, dell'efficacia dell’attività riparatoria posta in essere nell’ottica della prevenzione di ulteriori reati (Sez. 5, n. 14988, del 11/01/2012, M., Rv. 252490; Sez. 5, n. 12736 del 26/02/2009, Giaracuni, Rv. 243337; Sez. 5, n. 45355, 06/11/2008, Manieri, Rv. 242607; Sez. 4, n. 27439, 29/05/2008, Pradetto Coccolo, Rv. 240561).
All'interno di questo percorso logico valutativo si pone il problema della "qualità" della valutazione del giudice di pace per quanto riguarda la sufficienza e l'esaustività della condotta riparatoria posta in essere dall'imputato. Secondo un primo orientamento dottrinale e giurisprudenziale, che privilegia l'interpretazione letterale della norma, e che non attribuisce esplicita rilevanza alla riparazione parziale eventualmente posta in essere dall'imputato, non vi sarebbero margini per forme non integrali di risarcimento, imponendosi l'esaustivo ristoro del danno cagionato. In giurisprudenza, in base a questa linea interpretativa, è stato affermato che la norma, subordinando la pronuncia di estinzione del reato alla dimostrazione, a cura dell'imputato, di avere provveduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e di avere eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, esige una valutazione di assoluta esaustività della condotta riparatoria, la quale può prescindere dal positivo apprezzamento della parte lesa ma non del giudice. Si tratterebbe, infatti, di un giudizio del tutto omogeneo a quello che presidia il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., nel quale il giudice è chiamato, in via incidentale, a valutare la completezza dell'attività riparatoria del danno e quindi, anzitutto, la sufficienza della somma corrisposta o offerta ai fini dell'integrale ristoro del danno (Sez. 4, n. 36516 del 18/06/2008, Ilmer, Rv. 241957; Sez. 4, 11/06/2008, n. 23527, D.M.T., Rv. 240939; Sez.4, n. 1506 del 22/10/2013, Castagneri, Rv. 258483, con specifico riferimento ad una fattispecie in tema di lesioni colpose). Secondo un altro filone dottrinale e giurisprudenziale la pronuncia di estinzione del reato non esigerebbe l'integrale risarcimento del danno né un giudizio di congruità della condotta riparatoria, espressa con riferimento alla reale entità del danno subito dalla vittima, ma un positivo apprezzamento di idoneità satisfattiva della stessa che, formulato più con riguardo alle esigenze di riprovazione e prevenzione, lascerebbe alla competente sede civile ogni valutazione in ordine alla esaustività della somma offerta a tali fini. Tale esegesi garantirebbe una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, nel rispetto deH'art. 3 Cost., al fine di consentire l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in cui l'autore del reato, in considerazione delle disagiate condizioni economiche, non sia in grado di procedere ad un integrale risarcimento del danno cagionato, ma abbia fatto tutto il possibile in tal senso. In questo caso la parte civile eventualmente insoddisfatta potrà agire in un autonomo giudizio civile di danno, in quanto la sentenza del giudice di pace, accertando la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, con va lutazione operata allo stato degli atti, non determina alcun pregiudizio per le ragioni civilistiche dell'offeso.
4. L'accoglimento dell'una o dell'altra opzione ha dunque conseguenze rilevanti in relazione alla questione in esame, proprio in considerazione degli effetti che la pronuncia sul risarcimento potrebbe determinare nell'eventuale giudizio civile proposto a tal fine.
La soluzione che prevede la necessaria esaustività del risarcimento, comporta che il contenuto del provvedimento di cui all'art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 sarebbe suscettibile di formare cosa giudicata ai sensi dell'art. 2909 cod. civ., e come tale sarebbe idoneo a precludere l'eventuale successivo giudizio civile avente ad oggetto il debito risarcitorio ex crimine. In questo caso la sentenza ex art. 35, implicando necessariamente un accertamento del danno civile prodotto dal reato non più punibile, comprensivo della sua quantificazione, dovrebbe essere assimilata alla categoria delle sentenze di proscioglimento dibattimentali piuttosto che a quelle predibattimentali non suscettibili di formare un giudicato vincolante nel giudizio civile. Se si esclude invece che la sentenza in esame possa assumere efficacia di giudicato nel processo civile la parte civile eventualmente insoddisfatta potrà agire in un autonomo giudizio civile di danno, in quanto la sentenza del giudice di pace accerta la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato.
Ai fini della risoluzione della questione rimessa all'attenzione della Corte, appare necessario analizzare anche la disciplina relativa alla legittimazione ad impugnare della parte civile, con specifico riferimento al giudizio dinanzi al giudice di pace, nonché la connessa questione dell'interesse a ricorrere della parte privata. Quest'ultimo infatti, come sopra evidenziato, diverge proprio in considerazione del diverso modo di intendere la "qualità" riconosciuta all’interesse a ricorrere della parte civile in relazione alle sentenze di proscioglimento e, in particolare, con riferimento alla sentenza di cui all'art. 35 d.lgs. 274 del 2000, che costituisce infatti il principale limes normativo in base al quale si differenziano i due orientamenti giurisprudenziali sopra descritti.
Prima della riforma dell'art. 576 cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che aveva eliminato, con il potere di appello del p.m. avverso le sentenze di proscioglimento, anche l'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», l'art. 576 cod. proc. pen. conferiva alla parte civile il potere di proporre impugnazione, con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio. Il dubbio che tale riforma avesse inciso sul potere di impugnazione della parte civile in realtà non ha trovato sostanziale ingresso nelle decisioni della Corte che in generale, anche dopo la novella citata, ha continuato a sostenere la permanenza in capo alla parte civile del potere di impugnare, ritenendo irragionevole una disciplina che, pur consentendo legittimamente l'ingresso della parte civile nel processo penale, dovrebbe poi precluderle l'esperimento dei mezzi di impugnazione ammessi dalla legge (Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006 Negri, Rv. 233918; Sez. 3, n. 22924 del 11/05/2006, Scialpi, Rv. 234156; Sez. 5, n. 29935 del 10/06/2006, Pizzi, Rv. 234513; Sez. 5, n. 50578 del 07/11/2013, Bucci, Rv. 257841; e ancora Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236539, intervenuta immediatamente dopo che il potere di appello avverso le sentenze di proscioglimento era stato nuovamente riconosciuto al pubblico ministero per effetto della pronuncia di incostituzionalità relativa alla nuova disciplina di cui alla sentenza della Corte cost. n. 26 del 2007).
Per quanto riguarda il giudizio dinanzi al giudice di pace, in modo analogo la giurisprudenza di legittimità, già anteriormente alla riforma e poi anche successivamente ad essa, ha ritenuto sussistente la legittimazione della persona offesa costituitasi parte civile a proporre impugnazione, derivando tale facoltà proprio dalla regola generale dettata dall’art. 576 cod. proc. pen.; tale norma è applicabile in forza del richiamo di cui all'art. 2, d.lgs. n. 274 del 2000, secondo il quale nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto quanto non previsto dalla speciale normativa si osservano - in quanto applicabili - le norme contenute nel codice di rito (Sez. 5, n. 38699 del 14/10/2008, Buratti, Rv. 242021; Sez. 5, n. 36639 del 26/04/2005, Di Sevo, Rv. 232337; Sez. 5, n. 23665 del 25/03/2005, Sanfilippo, Rv. 231900; Sez. 5, n.3997 del 18/11/2004, Di Termini, Rv. 230684).
Tuttavia, ai sensi dell'art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000, in caso di procedimento instaurato con il ricorso immediato previsto dall'art. 21 dello stesso decreto, la parte civile ha altresì la facoltà di proporre impugnazione anche agli effetti penali avverso le sentenze relative a tutti i reati rientranti nella competenza del giudice di pace. La disposizione pertanto, mentre da un lato amplia la facoltà d’impugnazione per la parte civile, dall'altro introduce una limitazione, in quanto circoscrive l'ampliata facoltà d'impugnativa ai soli casi, tassativamente indicati, in cui è ammessa l’impugnazione da parte del pubblico ministero, cioè nei casi previsti dall'art 36 (sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria e sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa). Dalla disciplina integrata degli artt. 36 e 38 d.lgs. citato discende il principio secondo il quale l'art. 576 cod. proc. pen. è applicabile al procedimento davanti al giudice di pace nelle ipotesi di citazione a giudizio dell'imputato a norma dell’art. 20 d.lgs. n. 274 del 2000, mentre l'art. 38, relativo al solo ricorso immediato, estende la stessa facoltà di impugnativa, anche agli effetti penali (Sez. 5, n. 23726 del 31/03/2010, Serpi, Rv. 247509; Sez. 4, n. 15223 del 14/02/2007, Marcone, Rv. 236169; Sez. 5, n. 41148 del 14/11/2005, Capellino, Rv. 232589).
5. Ciò premesso occorre verificare se il potere di impugnazione della parte civile incontri, con riferimento in particolare alle sentenze di proscioglimento, delle limitazioni sotto il profilo dell'interesse ad impugnare, come diretta conseguenza del principio di economia processuale di cui all'art. 568, comma 4, cod. proc. pen.
Orbene, è costante l'insegnamento giurisprudenziale in base al quale l'interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo in termini di attualità, ma anche di concretezza (ex multis Sez. 6, n. 10309 del 22/01/2014, Lo Presti, Rv. 259506; Sez. 1, n. 36038 del 21/09/2005, Kibak, Rv. 232254; Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, Minotti, Rv. 240464; Sez. 5, n. 46151 del 15/10/2003, Acunzo, Rv. 227860; Sez. 5, n. 6676 del 09/11/2001, Graci, Rv. 221899), in modo tale che dalla modifica del provvedimento impugnato possa derivare l’eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame (v. Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815).
Nel caso di specie l'interesse all'impugnazione della parte civile è legato all'eventuale efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile.
L'art. 652 cod. proc. pen. prevede espressamente al comma 1 che solo «la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell'articolo 75, comma 2»; il comma 2 del citato articolo, poi, attribuisce la medesima efficacia alla «sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’articolo 442, se la parte civile ha accettato il rito abbreviato».
Tale disciplina, relativa agli effetti della sentenza penale nell'eventuale giudizio civile con specifico riferimento alle sentenze di proscioglimento, costituisce una deroga al generale principio di autonomia e di separazione delle diverse giurisdizioni, e coerentemente la giurisprudenza di legittimità, sia in sede penale che civile ha escluso la possibilità di applicazione analogica della stessa oltre i casi espressamente previsti dell'efficacia preclusiva della sentenza di assoluzione (v. Sez. U civ., n. 1768 del 26/01/2011, Rv. 616366; Sez. U civ., n. 12243 del 27/05/2009, Rv. 608300).
Con l'entrata in vigore del codice del 1989 è venuto meno infatti il principio dell'unitarietà della funzione giurisdizionale sostituito dal diverso principio della parità ed originarietà degli ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi. Il legislatore, tuttavia, ha inteso mitigare tale favor separationis riconoscendo valore preclusivo al giudicato penale in alcune limitate ipotesi che, costituendo appunto un'eccezione, sono soggette ad un'interpretazione restrittiva e non possono essere applicate per via di analogia oltre i casi espressamente previsti, concernenti gli elementi relativi alla insussistenza del fatto, alla non commissione dello stesso ed alla non illiceità per l'esistenza dell'esimente di cui all'art, 51 cod. pen. E' stata dunque esclusa l'efficacia delle pronunce di improcedibilità, sia di quelle emesse, per ragioni anche di merito, prima del dibattimento (artt. 425 e 469 cod. proc. pen.), sia di quelle di carattere processuale (per mancanza di una condizione di procedibilità o per estinzione del reato) emesse in esito al dibattimento (artt. 529 e 531 cod. proc. pen.). Peraltro la regola contenuta nell'art. 652 cod. proc. pen. deve essere interpretata nel senso che la formula assolutoria deve poggiare su di un effettivo e positivo accertamento circa l’insussistenza del fatto o l’impossibilità di attribuirlo all'imputato o riguardo la circostanza che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima. L'effetto di giudicato è collegato dunque al concreto effettivo accertamento dell'esistenza di una di queste ipotesi. In base a tale interpretazione l'interesse della parte civile ad impugnare le sentenze di proscioglimento è stato individuato negli specifici casi di efficacia extrapenale del giudicato, poiché solo in tali casi la pronuncia preclude il perseguimento degli interessi della parte privata anche in sede civile.
6. Per la risoluzione della questione appare utile fare riferimento anche ai principi affermati da Sez. U, n. 35599 del 21/06/2012, Di Marco, Rv. 253242, che, pur non investendo direttamente il tema della sussistenza (o meno) dell'interesse della parte civile a proporre ricorso contro la sentenza ex art. 35, d.lgs. 274 del 2000, trattandosi di questione relativa all' interesse della parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa di improcedibilità per mancanza di querela, appare, comunque, funzionale all'approfondimento del più ampio tema della legittimazione e dell'interesse ad impugnare della stessa parte civile. Orbene, in questo caso, è stato affermato il principio secondo il quale «la parte civile è priva di interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato per improcedibilità dell'azione penale dovuta a difetto di querela, trattandosi di pronuncia penale meramente processuale priva di idoneità ad arrecare vantaggio al proponente ai fini dell'azione civilistica». Tale conclusione rimanda ai consolidati orientamenti giurisprudenziali (v. Sez. U, Guerra) che fanno riferimento alla "concezione utilitaristica" dell'interesse ad impugnare, la cui apprezzabilità va valutata non solo in termini di attualità ma anche di concretezza, nel senso che deve tendere all'eliminazione della lesione in concreto di un diritto o di un interesse giuridico del proponente l'impugnazione. In questo senso la concretezza dell'interesse può essere ravvisata non solo quando l'impugnante, attraverso il gravame, si riprometta di conseguire effetti processuali diretti vantaggiosi, ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l'ordinamento fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione dell'imputato nei giudizi di danno (artt. 651, 652 cod. proc. pen.) o in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 cod. proc. pen.). Infatti, anche nell'ambito della riconosciuta unitarietà della giurisdizione, la regola vigente è quella della separazione delle giurisdizioni civile e penale, che prevede solo alcune ipotesi tassative nelle quali il giudicato penale ha efficacia nel giudizio civile su determinati oggetti accertati o soltanto contro determinati soggetti (v. artt. 2, 3, comma 4, 651, 652, 653, 654 cod. proc. pen.). La scelta appare coerente con la configurazione del carattere eventuale, accessorio e subordinato rispetto all'azione penale dell'azione civile nel processo penale, con tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e struttura dello stesso, cioè le esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati, alla definizione del processo in tempi ragionevoli ed anche , come nel caso in esame, ad esigenze deflative. Per questo la cognizione dell'azione civile nel processo penale impone al giudice penale di occuparsi dei capi civili a condizione che sia stata accertata la responsabilità penale dell'autore dell'illecito (v. artt. 538, 578 cod. proc. pen); così l'impugnazione proposta ai soli effetti civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla responsabilità penale del reo, ma il giudice penale dell'impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell'autore dell'illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell'imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto (v. Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918). E' stato pertanto riaffermato il principio in base al quale la presenza della parte civile nel processo penale ha la finalità esclusiva di preservare e perseguire la responsabilità civile dell'imputato (con le sole eccezioni relative all'impugnazione della pronuncia di cui all'art. 428 cod. proc. pen., che riguarda solo gli effetti penali e dell'ipotesi ex art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000) in quanto si riconnette alla giurisdizione limitata spettante al giudice penale sulla domande di risarcimento e restituzione formulate dalla parte civile nei confronti dell'imputato: cognizione che presuppone appunto l'accertamento del fatto-reato con effetti diretti ovvero incidentali nei confronti del prevenuto.
Con la conseguenza che l'interesse della parte civile ad impugnare, ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen., la sentenza di non doversi procedere va valutato e configurato in relazione alle peculiarità proprie dell'azione civile promossa nel giudizio penale. Come già visto, per la sentenza di proscioglimento per difetto di querela, è stato ritenuto che la sua natura meramente processuale, non comporta alcun effetto preclusivo di accertamento in sede civile (art. 652 cod. proc. pen.), né la stessa è stata ritenuta idonea ad arrecare alla parte civile un pregiudizio di alcun genere, atteso che non avrebbe neppure la possibilità di ottenere, con l'impugnazione, l'affermazione di responsabilità dell'imputato sia pure in riferimento agli effetti civili, in mancanza di impugnazione sul punto del pubblico ministero. In mancanza di tale gravame, inoltre, l'accertamento circa la sussistenza o meno dell'atto condizionante la procedibilità penale non influirebbe in alcun modo sulla posizione processuale del danneggiato nell'esercizio dell'azione intesa ad affermare la responsabilità civile dell'autore dell'illecito e la sua obbligazione di risarcimento del danno procurato. La scelta dell’istante di coltivare l'azione civile nel processo penale peraltro non potrebbe essere giustificata neppure da una preferenza di fatto verso un tipo di processo rispetto ad un altro, non essendo configurabile un diritto ad agire in giudizio secondo un determinato procedimento, tenuto conto del fatto che sarebbe comunque assicurata in sede civile per il danneggiato la risarcibilità totale dei danni patrimoniali ed anche non patrimoniali subiti; per questi ultimi, il giudice civile dovrà, in applicazione dell'art. 185 cod. pen., accertare in via incidentale se ricorrano o meno gli estremi di un reato al fine appunto della liquidazione dei danni morali (Sez. 3 civ., n. 13972 del 30/06/2005, Rv. 582748; in senso conforme Sez. 5, n. 32983 del 16/06/2014, La Pietra, Rv. 260075 e Sez. 2, n. 34724 del 10/07/2014, Gaias, Rv. 260086, per la carenza di interesse della parte civile a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato per improcedibilità dell'azione penale dovuta alla violazione del principio del ne bis in idem, e Sez. 6, n. 19540 del 21/03/2013, Failla, Rv. 255668 per la carenza di legittimazione della parte civile a proporre appello, neppure in via incidentale, avverso la sentenza dichiarativa di estinzione del reato per prescrizione, quando quest'ultima sia maturata prima della pronuncia della sentenza di primo grado, non essendovi stato alcun accertamento sul fatto).
7. Alla luce di quanto esposto, ai fini della risoluzione della questione posta al vaglio delle Sezioni unite, deve essere accolto l'orientamento secondo il quale si deve escludere l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa di estinzione del reato per condotte riparatone sia agli effetti penali che civili ex art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, con valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile.
Una tale conclusione deriva da un primo argomento di natura letterale e sistematica con riferimento alla specifica disciplina dettata in materia dall'art. 38, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000, il quale espressamente dispone che il «ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell'imputato a norma dell'art. 21 può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l'impugnazione da parte del pubblico ministero». La disposizione viene comunemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che la parte offesa costituita parte civile può ricorrere per cassazione anche ai fini penali, esclusivamente qualora il procedimento sia stato instaurato a seguito di ricorso immediato al giudice di pace. Tale disciplina, come emerge dalla Relazione al d.lgs. n. 274 del 2000, deve ritenersi un naturale effetto del regime delineato per la citazione diretta della persona offesa. Al sostanziale esercizio del diritto di azione non può non conseguire il diritto di impugnazione, anche agli effetti penali, avverso le sentenze emesse dal giudice di pace nel procedimento in questione che abbiano dichiarato l'infondatezza della prospettazione accusatoria. Inoltre nel caso di proscioglimento di un imputato chiamato a giudizio nelle forme ordinarie previste dall'art. 20 d.lgs. n. 274 del 2000, e la cui posizione è stata definita a seguito di una pronuncia dibattimentale, la parte civile avrà la possibilità di interporre gravame ai soli effetti civili, a norma della generale disciplina contenuta nell'art. 576 cod. proc. pen., senz'altro applicabile anche al procedimento davanti al giudice di pace, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000 (Sez. 5, n. 23726, 31/03/2010, Serpi, Rv. 247509; Sez. 4, n. 15223 del 14/02/2007, Marcone, Rv. 236169; Sez. 5, n. 41148 del 14/11/2005, Capellino, Rv. 232589).
Tali conclusioni non possono invece essere assunte nell'ipotesi di proscioglimento predibattimentale ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, e alla conseguente configurazione del potere di impugnazione della parte civile in relazione alle sentenze di proscioglimento, con specifico riferimento alla individuazione dei caratteri qualificanti l'interesse a proporre impugnazione ai sensi dell'art. 568, comma 4, cod. proc. pen. nonché ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell'attuale assetto codicistico, ispirato al favor separatìonis, di cui si è trattato ampiamente in precedenza. A tal fine è rilevante considerare l'ambito di operatività dell'art. 576 cod. proc. pen. che prevede la facoltà per la parte civile di proporre impugnazione «ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio».
Questa previsione deve essere interpretata valutando se tale facoltà possa intendersi con riferimento non a tutte le ipotesi di proscioglimento contemplate dal codice di rito, ma soltanto a quelle di assoluzione. Come già richiamato in precedenza, appare consolidato l'orientamento nella giurisprudenza delle Sezioni Unite sia civili che penali, che limita l'efficacia extrapenale del giudicato alle sole ipotesi previste dall'art. 652 cod. proc. pen.; da ciò deriva la configurabilità di un' assenza di interesse in capo alla parte civile alla impugnazione delle sentenze di non doversi procedere per mancanza di una condizione di procedibilità o per estinzione del reato; in tali ipotesi,infatti, non essendosi prodotti accertamenti sul fatto, dalla sentenza non possono derivare effetti pregiudizievoli per la parte civile, diversamente da quanto potrebbe accadere con riferimento ad una sentenza di assoluzione. Nella stessa prospettiva ancora di recente le Sezioni Unite hanno ragionato sul rapporto che intercorre tra il sistema processuale penale e quello processuale civile, ed hanno affermato il principio secondo il quale in presenza di un ricorso che investa solo il capo relativo all'affermazione della responsabilità civile, restando così preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile, non può essere ammessa una riapertura del tema penale solo per effetto della incidenza che su di esso potrebbe, in via di mera ipotesi, determinare la rivisitazione dell'accertamento sulla responsabilità civile; decidere in senso contrario equivarrebbe a stravolgere finalità e meccanismi decisori della giustizia penale in dipendenza di interessi civilistici ancora sub judice, che devono essere invece isolati e portati all'esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli. Ciò anche in virtù del principio di economia processuale che vieta il permanere della res iudicanda in sede penale in mancanza di un interesse penalistico della vicenda (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087). Né tale conclusione può essere ritenuta potenzialmente lesiva dei diritti e delle aspettative del danneggiato, perché in sede civile troveranno comunque applicazione le regole procedimentali e probatorie di tale rito, pur se meno favorevoli agli interessi del danneggiato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può beneficiare indirettamente la parte privata; d'altra parte una volta esercitata l'opzione processuale di introdurre l'azione risarcitoria nel processo penale, rientra tra i rischi della strategia processuale prescelta la possibilità di dover rinnovare la richiesta davanti al giudice civile nei casi in cui, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale, divenga impossibile accertare, in sede penale, la responsabilità dell'imputato.
Queste premesse appaiono coerenti anche con la natura e gli effetti della sentenza pronunciata dal giudice di pace ex art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, pur considerando che essa indubbiamente presenta delle caratteristiche peculiari che, a prescindere dal nomen iuris, le attribuiscono dei caratteri di originalità rispetto alle altre pronunce dichiarative di estinzione del reato previste nel nostro sistema processuale, trattandosi in ogni caso di una pronuncia che contiene una valutazione in ordine all'entità dei danni subiti dalla parte civile. La norma peraltro è costruita con modalità tutte interne al sistema penale ed è tesa a perseguire la ricomposizione della c.d. "pace sociale", dal punto di vista penalistico, con uno sguardo anche alla posizione della parte offesa, collocata tuttavia in una posizione di "lateralità" processuale. E ciò emerge dal fatto che nel correlare l'estinzione del reato alla valutazione di congruità del giudice di pace, la norma presuppone che siano state sentite le parti, ma non che sia stato acquisito il consenso della persona offesa, la cui eventuale mancanza non si pone, pertanto quale condizione ostativa all'operatività del meccanismo estintivo. La valutazione di congruità delle condotte risarcitone e riparatorie poste in essere dall'imputato si muove dunque su due binari paralleli, non alternativi tra loro, ma che hanno lo stesso convergente obiettivo finale. Infatti sia la soddisfazione delle esigenze compensative inerenti il profilo civilistico che quelle retributive e preventive concernenti gli obiettivi di prevenzione e repressione generale e speciale del settore penale, sono prefigurate nell'ottica dello scopo finale di ridimensionare il fatto reato attraverso una rielaborazione del conflitto tra autore e vittima, e favorire in tal modo la ricomposizione della lacerazione creatasi nel tessuto sociale, a cui non è estraneo neppure l'obiettivo più ampio di deflazione dei processi penali. Il positivo apprezzamento ai fini satisfattivi della idoneità complessiva della condotta riparatoria dell'imputato, nel disegno del legislatore, prescinde dunque dall'integrale risarcimento del danno, coerentemente devoluto, ove necessario, alla competenza del giudice civile, attraverso la scelta di privilegiare piuttosto il perseguimento in via anticipata degli interessi pubblicistici, come sopra individuati, legati al processo penale. La parte civile, qualora non ritenga esaustivo il risarcimento offerto, potrà adire comunque il giudice civile rispetto alla cui decisione, alla luce dei sopra esposti principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, la pronuncia penale non avrà alcuna incidenza, in quanto la congruità del risarcimento, operata allo stato degli atti ai soli fini dell'estinzione del reato, lascia comunque impregiudicata la possibilità di un nuovo e completo accertamento circa l'esistenza e l'entità del danno in favore della persona offesa; conclusione quindi conforme al fatto che le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato non statuiscono sulla responsabilità dell'imputato e pertanto non possono avere alcun effetto negativo per la parte civile (se non contengono alcun capo del dispositivo relativo all'accertamento ed alla quantificazione del danno, che rimane sommariamente delibato soltanto ai fini di cui all'art. 3 d.lgs. n. 274 del 2000).
8. Alla luce delle suesposte considerazioni deve essere dunque formulato il seguente principio di diritto:
"In tema di reati di competenza del giudice di pace non sussiste l'interesse per la parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000".
9. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile.
In considerazione della natura della controversia si ritiene equo non provvedersi sulle spese.

                                                          P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso il 23/04/2015.